«Ciò che voglio sottolineare solamente che il passaggio al di là della filosofia non consiste nel voltare la pagina della filosofia (il che equivale il più delle volte al mal filosofare) ma nel continuare a leggere i filosofi in un certo modo» (La scrittura e la differenza, cit. p. 370). Questo passo, tratto dalla conferenza ormai classica e già citata del 1966, potrebbe forse condensare l’atteggiamento più generale di Derrida nei confronti della tradizione filosofica, che trova l’espressione più compiuta nella «rilettura» operata ne La carte postale del noto rapporto Socrate-Platone: in questa importante opera del 1980 infatti, utilizzando una miniatura medievale trovata ad Oxford, Derrida mostra come il rapporto si sia rovesciato, nel senso che Platone parla e Socrate scrive.
Il rapporto Socrate – Platone era stato alla base di uno dei saggi più noti di Derida, La pharmacie de Platon del 1968, nel quale in maniera più accurata e organica, oltre che filologicamente molto ferrata, era stata proposta la tesi del logocentrismo o metafisica della presenza come filo conduttore di tutta la tradizione filosofica occidentale. È un saggio, anche questo “pirotecnico” (fuochi di parole), nel quale lo scrupolo filologico è intrecciato con una sfrenata sarabanda di metafore e richiami da un dialogo all’altro di Platone. L’interesse principale è comunque dedicato al Fedro e in particolare alla sua parte finale, nella quale Socrate racconta il famoso mito del re egiziano Thamus che, di fronte all’offerta della scrittura da parte del Dio Theut, dopo matura riflessione decide di respingere l’offerta in quanto la scrittura è qualcosa di molto inferiore e di negativo rispetto alla parola.
Questo mito, il cui significato è ripreso ricorrentemente in altri suoi scritti, spiega secondo Derrida il carattere fondamentale di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi: quello che fa definire questa filosofia come logocentrismo o metafisica della presenza. Qual è infatti il contenuto esplicito, oltre che il significato, del mito? Esso afferma, essenzialmente, che la parola è presenza, mentre la scrittura è assenza, negazione della presenza. Nel discorso parlato, cioè, l’anima ha “presente” in maniera immediata la verità; nel testo scritto questa immediatezza non c’è più. Nel parlare l’anima si esprime direttamente, è «presente»; nel testo scritto non c’è più, e questo vive una sua vita propria, da «orfano», separato da chi gli ha dato origine (Derrida talvolta parla di parricidio operato dal testo scritto nei confronti di chi gli ha dato origine). Tutto il male, il negativo, è assegnato «alla scrittura, che Platone definiva un orfano o un bastardo, opponendola alla parola (parole) figlio legittimo e bennato del “padre logo”» (Posizioni, cit., p. 50).
Umiliazione della scrittura, privilegiamento della parola, sono stati secondo Derrida i caratteri fondamentali della filosofia occidentale fino ad oggi; da qui la definizione di questa come «logocentrismo». Scriverà in un colloquio dello stesso 1968, in maniera più chiara che nel saggio, illustrando le caratteristiche del logocentrismo o metafisica della presenza: «La phoné è la sostanza significante che si dà alla coscienza come intimamente unita al pensiero del concetto significato. Da questo punto di vista, la voce è la coscienza stessa. Quando parlo non solo ho coscienza di essere presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al “concetto” un significante che non cade nel mondo, che io intendo (entends) nel momento medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l’uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa nel mondo…Beninteso questa esperienza è un inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura, o tutta un’epoca; e sul terreno di tale epoca si è costituita una semiologia i cui concetti e presupposti fondamentali sono reperibili da Platone a Husserl, passando per Aristotele, Rousseau, Hegel, ecc.» (Posizioni, cit., p. 59).
La tradizione logocentrista, per Derrida, è quella ancora dominante nei nostri giorni. Questa tradizione è stata ripercorsa, o “ripetuta”, in maniera più o meno consapevolmente critica, dai filosofi più significativi del nostro tempo. Dirà nell’importante saggio su Lévinas del 1964, Violenza e metafisica: «Recentemente e dopo Hegel, nella sua ombra immensa, le due grandi voci che ci hanno suggerito questa ripetizione totale, che ci hanno richiamato ad essa, che l’hanno riconosciuta come la prima necessità filosofica, sono, senza dubbio possibile, quelle di Husserl e di Heidegger» (La scrittura e la differenza, cit., p. 101). Voci alle quali si era accostato, prima di Derrida, Lévinas, il quale in un primo momento era stato vicino ad Husserl, quindi l’aveva criticato ispirandosi a Heidegger, e infine aveva abbandonato anche quest’ultimo costruendo una filosofia della assoluta alterità che tentava di uscire dalle vie obbligate (per Lévinas) dell’ellenismo (tradizione filosofica occidentale) e dell’ebraismo (tradizione di appartenenza di Lévinas).
Derrida guarda con simpatia al tentativo di Lévinas di uscire dalla metafisica della presenza, come ad altri tentativi, non strettamente filosofici (e neppure quello di Lévinas lo era), in questo senso (si è già citato lo scrittore E. Jabès, e si possono aggiungere i nomi di G. Bataille e A. Artaud, ai quali Derrida dedica importanti saggi).
Ritornando sul terreno propriamente filosofico, Derrida riconosce che i più avanzati tentativi in questa direzione sono stati, prima del suo, quelli di Nietzsche, Freud e Heidegger, ai quali associa, con motivazioni diverse, quello più recente di Foucault. Nella già citata conferenza del 1966, per esempio, indica come formulazioni più radicali di critica nei confronti della metafisica della presenza «la critica nietzschiana della metafisica, dei concetti di essere e di verità ai quali vengono sostituiti i concetti di gioco, di interpretazione e di segno (di segno senza verità presente); la critica freudiana della presenza a sé, cioè della coscienza, del soggetto, dell’identità a sé, della prossimità o della proprietà a sé; e, più radicalmente, la distruzione heideggeriana della metafisica, dell’onto-teologia, della determinazione dell’essere come presenza» (Ib., p. 361).
Tutti questi tentativi – compreso quello che vedremo subito di Focault e qualsiasi altro – sono però, secondo Derrida, destinati inevitabilmente al fallimento, perché si collocano, al di là delle intenzioni di chi li compie, sempre «all’interno» della metafisica che vogliono criticare, distruggere oltrepassare. Quei tentativi e tutti i loro analoghi «sono presi in una specie di cerchio. Questo cerchio è unico ed esprime la forma del rapporto tra la storia della metafisica e la distruzione della storia della metafisica: non ha alcun senso non servirsi dei concetti della metafisica per far crollare la metafisica; noi non disponiamo di alcun linguaggio – di alcuna sintassi e di alcun lessico – che sia estraneo a questa storia; non possiamo enunciare nessuna proposizione distruttrice che non abbia già dovuto insinuarsi nella forma, nella logica e nei postulati impliciti a quello stesso che essa vorrebbe contestare» (Ib., p. 32).
Nietzsche, Freud, Heidegger, quindi, sono rimasti, nonostante le loro intenzioni, all’interno dei concetti ereditati dalla metafisica che volevano distruggere. «È questo – osserva Derrida acutamente – che permette allora a quei distruttori di distruggersi reciprocamente, per esempio Heidegger di considerare Nietzshe, con lucidità e rigore pari alla malafede e alla incomprensione, come l’ultimo metafisico, l’ultimo “platonico”. Si potrebbe ripetere l’operazione a proposito di Heidegger stesso, di Freud o di altri. Non c’è operazione più frequente al giorno d’oggi» (Ib., p. 363). Derrida ritornerà frequentemente, in saggi e colloqui, sul tema del carattere ancora metafisico (e di metafisica della presenza!) del pensiero di Nietzsche e soprattutto di Heidegger, nei confronti del quale peraltro riconosce un grande debito («Nessuno dei miei tentativi sarebbe infatti stato possibile senza l’apertura delle domande Heideggeriane», in Posizioni, cit. p. 48).Quanto a Foucault, l’altro grande post- strutturalista rispetto al quale Derrida, di qualche anno più giovane, riconosce dei debiti, anch’egli tenta di realizzare un compito impossibile, addirittura «folle», quando cerca di uscire , nella Storia della follia del 1961, la sua prima grande opera, dalla metafisica occidentale. Questo è il giudizio fortemente motivato di Derrida nel saggio del 1964 Cogito e storia della follia (al quale Foucault risponderà in maniera molto impegnata nella seconda edizione dell’opera). Volendo ridare la parola alla follia in se stessa, aggirando le discipline che finora ne hanno parlato o hanno parlato in suo nome (dalla psichiatria alla filosofia in generale, con particolare riferimento a cruciali passi cartesiani), Foucault intraprende un progetto «folle» e assolutamente impraticabile. La ragione, infatti, ha «catturato» e «oggettivato» la follia, esiliandola nella «regione» della malattia; noi siamo ormai inevitabilmente «dentro» il linguaggio costruito dalla ragione nel produrre tale esilio, e «non è possibile svincolarsi totalmente dalla totalità del linguaggio che avrebbe prodotto l’esilio della follia» (La scrittura e la differenza, cit., p. 45). Non è possibile metter da parte questa eredità razionalistica: «La rivoluzione contro la ragione – scrive Derrida in maniera arguta ma anche un po’ irriverente nei confronti di Foucault – non può farsi che in essa, secondo una dimensione hegeliana che, per quel che mi riguarda, ho molto apprezzato nel libro di Foucault, malgrado l’assenza di un preciso riferimento a Hegel. Non potendo operare, fin dal momento che si dichiara, se non all’interno della ragione, la rivoluzione contro la ragione ha dunque sempre la dimensione limitata di ciò che si chiama, nel linguaggio appunto del ministero degli interni, una agitazione» (Ib., p. 46).
Se tutti i tentativi fatti fino ad ora per uscire dalla metafisica razionalistica occidentale fondata sul privilegiamento del logos e della presenza sono falliti, è possibile avviarne un altro? È possibile, cioè, uscire dalla metafisica della presenza in forme che non «ripetano» le precedenti, che non si risolvano in una ulteriore rivoluzione-agitazione, contro la metafisica e la ragione, che sta necessariamente «dentro» la metafisica e la ragione? Questo è il problema di fondo che Derrida ha di fronte dopo essersi bruciato tutti i ponti alle spalle: il problema di passare dalla filosofia (metafisica occidentale, come ben avevano visto Hegel, Nietzsche, Heidegger, Lévinas) alla post-filosofia; di andare al di là della filosofia, come scrive nel passo citato all’inizio di questo paragrafo, non «voltando la pagina della filosofia», ma leggendo i filosofi «in un certo modo».
Derrida è ben consapevole delle difficoltà del compito, ma lo affronta correndo volutamente i rischi connessi alla presentazione di un “certo modo” che risulta, anche sul piano linguistico e lessicale, radicalmente differente dai tentativi che lo hanno preceduto, ed appare in molti suoi scritti come un «pirotecnico» parodiare i filosofi presenti e passati.
Il rapporto Socrate – Platone era stato alla base di uno dei saggi più noti di Derida, La pharmacie de Platon del 1968, nel quale in maniera più accurata e organica, oltre che filologicamente molto ferrata, era stata proposta la tesi del logocentrismo o metafisica della presenza come filo conduttore di tutta la tradizione filosofica occidentale. È un saggio, anche questo “pirotecnico” (fuochi di parole), nel quale lo scrupolo filologico è intrecciato con una sfrenata sarabanda di metafore e richiami da un dialogo all’altro di Platone. L’interesse principale è comunque dedicato al Fedro e in particolare alla sua parte finale, nella quale Socrate racconta il famoso mito del re egiziano Thamus che, di fronte all’offerta della scrittura da parte del Dio Theut, dopo matura riflessione decide di respingere l’offerta in quanto la scrittura è qualcosa di molto inferiore e di negativo rispetto alla parola.
Questo mito, il cui significato è ripreso ricorrentemente in altri suoi scritti, spiega secondo Derrida il carattere fondamentale di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi: quello che fa definire questa filosofia come logocentrismo o metafisica della presenza. Qual è infatti il contenuto esplicito, oltre che il significato, del mito? Esso afferma, essenzialmente, che la parola è presenza, mentre la scrittura è assenza, negazione della presenza. Nel discorso parlato, cioè, l’anima ha “presente” in maniera immediata la verità; nel testo scritto questa immediatezza non c’è più. Nel parlare l’anima si esprime direttamente, è «presente»; nel testo scritto non c’è più, e questo vive una sua vita propria, da «orfano», separato da chi gli ha dato origine (Derrida talvolta parla di parricidio operato dal testo scritto nei confronti di chi gli ha dato origine). Tutto il male, il negativo, è assegnato «alla scrittura, che Platone definiva un orfano o un bastardo, opponendola alla parola (parole) figlio legittimo e bennato del “padre logo”» (Posizioni, cit., p. 50).
Umiliazione della scrittura, privilegiamento della parola, sono stati secondo Derrida i caratteri fondamentali della filosofia occidentale fino ad oggi; da qui la definizione di questa come «logocentrismo». Scriverà in un colloquio dello stesso 1968, in maniera più chiara che nel saggio, illustrando le caratteristiche del logocentrismo o metafisica della presenza: «La phoné è la sostanza significante che si dà alla coscienza come intimamente unita al pensiero del concetto significato. Da questo punto di vista, la voce è la coscienza stessa. Quando parlo non solo ho coscienza di essere presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al “concetto” un significante che non cade nel mondo, che io intendo (entends) nel momento medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l’uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa nel mondo…Beninteso questa esperienza è un inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura, o tutta un’epoca; e sul terreno di tale epoca si è costituita una semiologia i cui concetti e presupposti fondamentali sono reperibili da Platone a Husserl, passando per Aristotele, Rousseau, Hegel, ecc.» (Posizioni, cit., p. 59).
La tradizione logocentrista, per Derrida, è quella ancora dominante nei nostri giorni. Questa tradizione è stata ripercorsa, o “ripetuta”, in maniera più o meno consapevolmente critica, dai filosofi più significativi del nostro tempo. Dirà nell’importante saggio su Lévinas del 1964, Violenza e metafisica: «Recentemente e dopo Hegel, nella sua ombra immensa, le due grandi voci che ci hanno suggerito questa ripetizione totale, che ci hanno richiamato ad essa, che l’hanno riconosciuta come la prima necessità filosofica, sono, senza dubbio possibile, quelle di Husserl e di Heidegger» (La scrittura e la differenza, cit., p. 101). Voci alle quali si era accostato, prima di Derrida, Lévinas, il quale in un primo momento era stato vicino ad Husserl, quindi l’aveva criticato ispirandosi a Heidegger, e infine aveva abbandonato anche quest’ultimo costruendo una filosofia della assoluta alterità che tentava di uscire dalle vie obbligate (per Lévinas) dell’ellenismo (tradizione filosofica occidentale) e dell’ebraismo (tradizione di appartenenza di Lévinas).
Derrida guarda con simpatia al tentativo di Lévinas di uscire dalla metafisica della presenza, come ad altri tentativi, non strettamente filosofici (e neppure quello di Lévinas lo era), in questo senso (si è già citato lo scrittore E. Jabès, e si possono aggiungere i nomi di G. Bataille e A. Artaud, ai quali Derrida dedica importanti saggi).
Ritornando sul terreno propriamente filosofico, Derrida riconosce che i più avanzati tentativi in questa direzione sono stati, prima del suo, quelli di Nietzsche, Freud e Heidegger, ai quali associa, con motivazioni diverse, quello più recente di Foucault. Nella già citata conferenza del 1966, per esempio, indica come formulazioni più radicali di critica nei confronti della metafisica della presenza «la critica nietzschiana della metafisica, dei concetti di essere e di verità ai quali vengono sostituiti i concetti di gioco, di interpretazione e di segno (di segno senza verità presente); la critica freudiana della presenza a sé, cioè della coscienza, del soggetto, dell’identità a sé, della prossimità o della proprietà a sé; e, più radicalmente, la distruzione heideggeriana della metafisica, dell’onto-teologia, della determinazione dell’essere come presenza» (Ib., p. 361).
Tutti questi tentativi – compreso quello che vedremo subito di Focault e qualsiasi altro – sono però, secondo Derrida, destinati inevitabilmente al fallimento, perché si collocano, al di là delle intenzioni di chi li compie, sempre «all’interno» della metafisica che vogliono criticare, distruggere oltrepassare. Quei tentativi e tutti i loro analoghi «sono presi in una specie di cerchio. Questo cerchio è unico ed esprime la forma del rapporto tra la storia della metafisica e la distruzione della storia della metafisica: non ha alcun senso non servirsi dei concetti della metafisica per far crollare la metafisica; noi non disponiamo di alcun linguaggio – di alcuna sintassi e di alcun lessico – che sia estraneo a questa storia; non possiamo enunciare nessuna proposizione distruttrice che non abbia già dovuto insinuarsi nella forma, nella logica e nei postulati impliciti a quello stesso che essa vorrebbe contestare» (Ib., p. 32).
Nietzsche, Freud, Heidegger, quindi, sono rimasti, nonostante le loro intenzioni, all’interno dei concetti ereditati dalla metafisica che volevano distruggere. «È questo – osserva Derrida acutamente – che permette allora a quei distruttori di distruggersi reciprocamente, per esempio Heidegger di considerare Nietzshe, con lucidità e rigore pari alla malafede e alla incomprensione, come l’ultimo metafisico, l’ultimo “platonico”. Si potrebbe ripetere l’operazione a proposito di Heidegger stesso, di Freud o di altri. Non c’è operazione più frequente al giorno d’oggi» (Ib., p. 363). Derrida ritornerà frequentemente, in saggi e colloqui, sul tema del carattere ancora metafisico (e di metafisica della presenza!) del pensiero di Nietzsche e soprattutto di Heidegger, nei confronti del quale peraltro riconosce un grande debito («Nessuno dei miei tentativi sarebbe infatti stato possibile senza l’apertura delle domande Heideggeriane», in Posizioni, cit. p. 48).Quanto a Foucault, l’altro grande post- strutturalista rispetto al quale Derrida, di qualche anno più giovane, riconosce dei debiti, anch’egli tenta di realizzare un compito impossibile, addirittura «folle», quando cerca di uscire , nella Storia della follia del 1961, la sua prima grande opera, dalla metafisica occidentale. Questo è il giudizio fortemente motivato di Derrida nel saggio del 1964 Cogito e storia della follia (al quale Foucault risponderà in maniera molto impegnata nella seconda edizione dell’opera). Volendo ridare la parola alla follia in se stessa, aggirando le discipline che finora ne hanno parlato o hanno parlato in suo nome (dalla psichiatria alla filosofia in generale, con particolare riferimento a cruciali passi cartesiani), Foucault intraprende un progetto «folle» e assolutamente impraticabile. La ragione, infatti, ha «catturato» e «oggettivato» la follia, esiliandola nella «regione» della malattia; noi siamo ormai inevitabilmente «dentro» il linguaggio costruito dalla ragione nel produrre tale esilio, e «non è possibile svincolarsi totalmente dalla totalità del linguaggio che avrebbe prodotto l’esilio della follia» (La scrittura e la differenza, cit., p. 45). Non è possibile metter da parte questa eredità razionalistica: «La rivoluzione contro la ragione – scrive Derrida in maniera arguta ma anche un po’ irriverente nei confronti di Foucault – non può farsi che in essa, secondo una dimensione hegeliana che, per quel che mi riguarda, ho molto apprezzato nel libro di Foucault, malgrado l’assenza di un preciso riferimento a Hegel. Non potendo operare, fin dal momento che si dichiara, se non all’interno della ragione, la rivoluzione contro la ragione ha dunque sempre la dimensione limitata di ciò che si chiama, nel linguaggio appunto del ministero degli interni, una agitazione» (Ib., p. 46).
Se tutti i tentativi fatti fino ad ora per uscire dalla metafisica razionalistica occidentale fondata sul privilegiamento del logos e della presenza sono falliti, è possibile avviarne un altro? È possibile, cioè, uscire dalla metafisica della presenza in forme che non «ripetano» le precedenti, che non si risolvano in una ulteriore rivoluzione-agitazione, contro la metafisica e la ragione, che sta necessariamente «dentro» la metafisica e la ragione? Questo è il problema di fondo che Derrida ha di fronte dopo essersi bruciato tutti i ponti alle spalle: il problema di passare dalla filosofia (metafisica occidentale, come ben avevano visto Hegel, Nietzsche, Heidegger, Lévinas) alla post-filosofia; di andare al di là della filosofia, come scrive nel passo citato all’inizio di questo paragrafo, non «voltando la pagina della filosofia», ma leggendo i filosofi «in un certo modo».
Derrida è ben consapevole delle difficoltà del compito, ma lo affronta correndo volutamente i rischi connessi alla presentazione di un “certo modo” che risulta, anche sul piano linguistico e lessicale, radicalmente differente dai tentativi che lo hanno preceduto, ed appare in molti suoi scritti come un «pirotecnico» parodiare i filosofi presenti e passati.
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