
A questa ampia potenzialità concettuale si contrappone un’accezione del counseling come sinonimo di “guida, sostegno”, cioè come “una forma di assistenza volta ad aiutare l’adolescente a risolvere per conto proprio i problemi ed a stimolare il normale processo di dispiegamento dell’identità”. Più precisamente:
“Si opta solitamente per questo approccio nel caso di adolescenti per i quali non si può parlare tanto di disturbi e problemi chiaramente delimitabili, quanto di difficoltà in un ampio settore, che l’adolescente si trova a dover affrontare da solo. La finalità e, da un lato, superare le difficoltà in un ampio settore, che l’adolescente si trova a dover affrontare da solo. La finalità è, da un lato, superare le difficoltà, dall’altro, aiutare l’adolescente ad avviare contatti con persone del suo ambiente; in questo modo, quando le difficoltà si ripresenteranno, egli non sarà più solo” (cif de Wit, van der Veer, 1991, tr. It. 1993,pp.315-316).
Secondo questo approccio, l’obiettivo, costituito dall’”intensificare il normale processo evolutivo”, viene conseguito quando “l’operatore può rappresentare un chiaro modello di identificazione” e può quindi “offrire spazio per le sperimentazioni, in cui egli agisce da guida” (Ib., p. 316). A tale riguardo, è presentata la proposta di Beets (1974), che, partendo dalle teorie di Erikson (cfr., ad es., 1963, 1968, 1982), considera l’”attivazione reciproca” la componente più importante dell’assistenza ai giovani. Gli scopi educativi degli operatori sono:
1 Insegnare “a pensare con ordine e logica all’esistenza umana” (cioè rendere consapevole il soggetto che fa parte di contesti sociali, gerarchicamente organizzati dai più immediati come la famiglia a quelli più ampi come la società, nei quali egli agisce attraverso delle scelte che comportano l’assunzione di responsabilità);
2 Stimolare processi di apprendimento “nel campo dell’analisi e della valutazione delle circostanze e delle situazioni sociali” (ossia rendere capace il soggetto di uscire da situazioni indesiderate);
3 Indurre ad analizzare e valutare i propri sentimenti, motivazioni e finalità (cioè far capire al soggetto le contraddizioni in atto o potenziali che guidano i suoi comportamenti a riguardo);
4 Favorire l’abilità di comportarsi “secondo altre e/o nuove norme” (ossia far comprendere al soggetto l’importanza degli interrogativi sulle questioni morali per regolare le proprie condotte in senso adattivo) (cfr. de Wit, van der Veer, op. cit., pp. 316-317).
L. Aprile, La pedagogia clinica ed il counseling in psicopatologia dell’adolescenza, in M. Pissacroia (a cura di), Trattato di psicopatologia della adolescenza, Piccin, Padova, 1997.
“Si opta solitamente per questo approccio nel caso di adolescenti per i quali non si può parlare tanto di disturbi e problemi chiaramente delimitabili, quanto di difficoltà in un ampio settore, che l’adolescente si trova a dover affrontare da solo. La finalità e, da un lato, superare le difficoltà in un ampio settore, che l’adolescente si trova a dover affrontare da solo. La finalità è, da un lato, superare le difficoltà, dall’altro, aiutare l’adolescente ad avviare contatti con persone del suo ambiente; in questo modo, quando le difficoltà si ripresenteranno, egli non sarà più solo” (cif de Wit, van der Veer, 1991, tr. It. 1993,pp.315-316).
Secondo questo approccio, l’obiettivo, costituito dall’”intensificare il normale processo evolutivo”, viene conseguito quando “l’operatore può rappresentare un chiaro modello di identificazione” e può quindi “offrire spazio per le sperimentazioni, in cui egli agisce da guida” (Ib., p. 316). A tale riguardo, è presentata la proposta di Beets (1974), che, partendo dalle teorie di Erikson (cfr., ad es., 1963, 1968, 1982), considera l’”attivazione reciproca” la componente più importante dell’assistenza ai giovani. Gli scopi educativi degli operatori sono:
1 Insegnare “a pensare con ordine e logica all’esistenza umana” (cioè rendere consapevole il soggetto che fa parte di contesti sociali, gerarchicamente organizzati dai più immediati come la famiglia a quelli più ampi come la società, nei quali egli agisce attraverso delle scelte che comportano l’assunzione di responsabilità);
2 Stimolare processi di apprendimento “nel campo dell’analisi e della valutazione delle circostanze e delle situazioni sociali” (ossia rendere capace il soggetto di uscire da situazioni indesiderate);
3 Indurre ad analizzare e valutare i propri sentimenti, motivazioni e finalità (cioè far capire al soggetto le contraddizioni in atto o potenziali che guidano i suoi comportamenti a riguardo);
4 Favorire l’abilità di comportarsi “secondo altre e/o nuove norme” (ossia far comprendere al soggetto l’importanza degli interrogativi sulle questioni morali per regolare le proprie condotte in senso adattivo) (cfr. de Wit, van der Veer, op. cit., pp. 316-317).
L. Aprile, La pedagogia clinica ed il counseling in psicopatologia dell’adolescenza, in M. Pissacroia (a cura di), Trattato di psicopatologia della adolescenza, Piccin, Padova, 1997.
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