
Per parecchi tempo, la malattia di Nietzsche ha rappresentato un «argomento» di cui si è servita certa critica per screditare la sua filosofia. L’alternativa consisteva solamente nell’interpretare il suo pensiero come «risultato» della sua malattia o, più originalmente, la sua malattia come «risultato» del suo pensiero. In ogni caso, la malattia veniva considerata come qualcosa di esclusivamente negativo e da mettere in correlazione necessaria con il suo sistema filosofico.
Oggigiorno la situazione è radicalmente cambiata. Infatti, non solo ci si rifiuta di considerare la filosofia di Nietzsche sulla base della sua malattia o viceversa (come se si trattasse di un deterministico rapporto di causa-effetto) ma, in taluni settori della critica, si tende piuttosto a valorizzare la malattia, scorgendo in essa una condizione positiva del suo filosofare. In altri termini, secondo questo punto di vista, sarebbe anche in virtù della sofferenza e della solitudine che Nietzsche, lasciandosi alle spalle le illusioni (o le «magie») dei «sani», avrebbe potuto attingere un punto « abissale» sul mondo. «La condizione di certi uomini malati – scrive il filosofo – che a lungo e terribilmente sono tormentati dai loro dolori, senza che per questo il loro intelletto resti offuscato, non è senza valore per la conoscenza, anche prescindendo dai benefici intellettuali che ogni profonda solitudine, ogni subitanea e consentita libertà da ogni dovere e consuetudine portano con sé. Colui che soffre fortemente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l’occhio dell’uomo sano vi si affissa, sono invece per lui dileguate; anzi egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: è forse l’unico mezzo…» (Aurora).
Oggigiorno la situazione è radicalmente cambiata. Infatti, non solo ci si rifiuta di considerare la filosofia di Nietzsche sulla base della sua malattia o viceversa (come se si trattasse di un deterministico rapporto di causa-effetto) ma, in taluni settori della critica, si tende piuttosto a valorizzare la malattia, scorgendo in essa una condizione positiva del suo filosofare. In altri termini, secondo questo punto di vista, sarebbe anche in virtù della sofferenza e della solitudine che Nietzsche, lasciandosi alle spalle le illusioni (o le «magie») dei «sani», avrebbe potuto attingere un punto « abissale» sul mondo. «La condizione di certi uomini malati – scrive il filosofo – che a lungo e terribilmente sono tormentati dai loro dolori, senza che per questo il loro intelletto resti offuscato, non è senza valore per la conoscenza, anche prescindendo dai benefici intellettuali che ogni profonda solitudine, ogni subitanea e consentita libertà da ogni dovere e consuetudine portano con sé. Colui che soffre fortemente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l’occhio dell’uomo sano vi si affissa, sono invece per lui dileguate; anzi egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: è forse l’unico mezzo…» (Aurora).
Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Torino, 1996.
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