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ANTROPOLOGIA PER INSEGNARE

Nell’epoca della deterritorializzazione, dello “spazio cibernetico”, il concetto di patria continua a dare forme alle nostre identità culturali, particolarmente in quelle comunità sottoposte, per una ragione o per l’altra, alla diaspora o al trasferimento. E le voci antropologiche che hanno messo in discussione la “naturalità” della sedentarietà, le loro ricerche che, sia pur timidamente, hanno cercato di dimostrare l’”invenzione” e l’uso politico e manipolatorio di molte tradizioni che fondano culture ed etnie, non sono ascoltate con la dovuta attenzione: soprattutto sono pressoché ignorate dai mezzi di comunicazione di massa e dai nostri programmi scolastici.
Troppo spesso il legame tra un luogo, la memoria e la nostalgia gioca ruoli colmi di ambiguità nell’immaginario collettivo e nella cultura popolare televisiva. A livello letterario questa ambiguità è stata analizzata con grande precisione da Salman Rushdie che in Patrie immaginarie così scrive:
Forse gli scrittori nella mia stessa situazione, esuli o emigrati o espatriati, sono perseguitati dallo stesso senso di perdita, da un forte senso di riappropriazione, di guardare indietro, anche al rischio di venir tramutati in colonne di sale. Ma se guardiamo indietro, dobbiamo farlo sapendo – e ciò genera incertezze profonde – che la nostra alienazione fisica dall’India significa quasi inevitabilmente non essere in grado di recuperare esattamente le cose che abbiamo perduto; e che, in breve, creeremo delle fictions al posto delle vere città o paesi, fictions invisibili, patrie immaginarie, Indie della mente.A livello politico queste “patrie immaginarie” vengono spesso create, enfatizzate e usate per alimentare fra gli esiliati e gli immigrati odi e fazioni, per arruolare truppe e risorse per future guerre tese, forse e in un futuro non ben definito, a riconquistare territori perduti.
M. C. Galli Antropologia per insegnare

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