L’amicizia per il morto porta dunque questa philía al limite della sua possibilità. Ma, contemporaneamente mette a nudo la molla ultima di questa possibilità: non potrei amare di amicizia senza progettarne lo slancio verso l’orizzonte della morte. L’orizzonte è il limite e l’assenza di limite, la perdita dell’orizzonte all’orizzonte, anorizzontabilità dell’orizzonte, il limite come assenza di linite. Non potrei amare di amicizia senza impegnarmi, senza sentirmi anticipatamente impegnato ad amare l’altro oltre la morte. Quindi oltre la vita. Io mi sento, e anticipatamente, prima di ogni contratto, portato ad amare l’altro morto. Mi sento così (portato ad) amare, è così che mi sento (amare).
L’autologia dà da pensare, come sempre: io mi sento amato, portato ad amare il morto, l’essere amato o l’essere amabile, che, come si è già detto, non è necessariamente vivente, e che quindi porta la morte nel suo essere amato. Ricordiamolo, e facciamolo con le parole di Aristotele. Egli ci spiega perché ci si può rallegrare e accade di rallegrarsi di amare, ma non ci si potrebbe rallegrare, o almeno, diremmo, non essenzialmente, non intrinsecamente, di essere amati. Il godimento, il rallegrarsi non è immanente all’amato ma all’amore, al suo atto, alla sua propria enérgeia. Il criterio di una simile distinzione segna una linea apparentemente invisibile. Essa passa tra vivo e morto, l’animato e l’inanimato, lo psichico e l’a-psichico. Questione di respirazione e d’ispirazione: amare appartiene soltanto all’essere dotato di vita o soffio. Essere amato, al contrario, resta sempre possibile dal lato dell’inanimato, là dove una psyché può essere già spirata. “Si amano anche gli esseri inanimati”.
J. Derrida Oligarchie: nominare, enumerare, censire
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